Dopodiché è stato inevitabile confermare ciò che, a più riprese, si è sempre detto di questo Mondiale: un vero padrone, un leader, non ce l’ha. Innumerevoli golpe, ascese mordi e fuggi, coabitazioni al limite della logicità. In vetta alla classifica – domenicale o generale – sinora, si sono avvicendate svariate figure, a cui va riconosciuto il merito di aver messo in mostra, oltre al talento, anche qualcos’altro di vagamente sferico, a costo di errori talvolta veniali, talvolta decisamente grossolani.
Barcellona ha rivisto guizzare, dopo un’estate sciapa, colui che si era issato in cima a tutti e tutto senza troppi complimenti, quel Quartararo che è la copia su foglio lucido (mica tanto) del Lorenzo del Mondiale 2015: perfetto quando tutto gira per il meglio, impacciato e nervoso alle prime difficoltà. Un connubio di fattori che portò, in ogni caso, lo spagnolo a trionfare. Il francese, però, non dispone della meravigliosa M1 del 2015, pressoché adatta a tutte le piste: l’attuale, così come le sue recenti antenate, fa i capricci un po’ qua, un po’ là. Non deve fronteggiare un solo avversario (e mezzo), bensì un plotone considerevole, che decide arbitrariamente di destarsi o sprofondare in un sonno travagliato. Insomma, un bel pot-pourri di variabili. Un bell’inguacchio. Un po’ un casino.
E nel frattempo, da dietro la porta, in stile “vecchio volpone” Berlusconi che spunta improvvisamente al Maurizio Costanzo Show, Joan Mir osserva, appunta e impara. Le luci della ribalta non le ha mai saggiate, eppure alla domenica è quello che regala lo spettacolo più soddisfacente, inerpicandosi in rimonte che divengono, via via, sempre più pronosticabili. E che costruiscono ponti storici con un altro vecchio volpone: uno che di mappazzoni in qualifica e capolavori in gara se ne intende a palate, quel Valentino Rossi che, sempre nel 2015, grazie a risalite e costanza di risultati, per un pelo non pose la firma per il 10° titolo. Sarebbe bastato un altro giro e Quartararo, ormai sulle tele, sarebbe stato inghiottito da Mir che, anzitempo – da inizio stagione – aveva già masticato e digerito Rins, leader di squadra piegato dagli infortuni e dai suoi storici difetti. Ergo, il #20 e il #36, a conti fatti, sono i principali candidati a darsele di santa ragione per conquistare la corona. Forse gli unici. Forse no.
Perché Vinales – seppur nuovamente corteggiato dalla sua vecchia fiamma, la partenza a passo di bradipo – ogni tanto sindaca che è giornata, e tanti saluti al resto della compagnia. E infatti in classifica è lì, a distanza di sicurezza, contagiato dalla voglia di primeggiare, ma asintomatico. Anche Morbidelli si sta divertendo sempre di più a rompere gli zebedei ai big, così come Bagnaia, il quale tutti si augurano che non sia l’ennesimo “fruscio di scopa nova” di Borgo Panigale; Miller, o Nakagami, che nonostante non sia Marquez e la Honda non sia la Honda e di podi neanche l’ombra, è 7° a 36 punti: una roba che distopia, portami via. Poi c’è chi di anni sulla carta d’identità ne ha 41, ma per tener fede ai suoi 21, pimpanti, cerebrali, osa dove volano le Aquile, precipitando ingenuamente a terra. E c’è chi, infine, va piano, sano e lontano: forse un po’ troppo, piano.
Catalunya, in sostanza, ci sussurra ad alta voce che guai a distrarci da ogni singolo attimo di ogni singola sessione di ogni singolo weekend. Guai, inoltre, ad azzardare pronostici. Per i quali le KTM, non ancora citate, sono i veri spauracchi. E se mai, questo Mondiale, dovesse cantare, intonerebbe probabilmente “Still don’t know my name”. A Le Mans. Dopodiché…
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