Tralasceremo, in questo spazio di commento al Gran Premio di Cina, i vincitori e gli sconfitti. In una Formula 1 che appare sempre più complicata ma dannatamente puntuale nell’esprimere giudizi lapidari, ogni tanto è cosa buona e giusta cancellare la classifica e dare aria a un pensiero che sia slegato da numeri e discorsi più o meno sensazionalistici su un futuro che, in fondo, nessuno sa per davvero.
La sensazione, neanche tanto velata, è che la Ferrari stia attraversando un periodo di grande confusione. Sulla questione squalifica si sono scritti fiumi di inchiostro, o meglio, si sono digitati centinaia di caratteri. La confusione che serpeggia nella squadra rossa, come fulminata da qualcosa che non si aspettavano che accadesse. E come biasimarli. Dopo aver conteso il mondiale costruttori alla McLaren ed essersi assicurati il pilota più vincente nella storia della categoria, la fiducia era arrivata a tal punto che la parola proibita, quella che nessuno vuole pronunciare, è passata di bocca in bocca senza eccessive scaramanzie. Sarà che ci sono pochi napoletani, ma ‘mondiale’ ha trapassato martello, incudine e staffa di tutte le orecchie che hanno capacità di udire prima e, poi, attraverso l’essere umano, di comprendere.
Ribadiamo. Non si sa come andrà a finire. Si sa, però, che non era l’inizio preventivato. E che vi sono delle magagne che, all’indomani di un anno positivo, affossano nelle sabbie mobili baracca e burattini. La sprint race vinta da Hamilton testimonia di come qualcosa di buono ci sia. Ci pare, però, che la Ferrari vista tra Melbourne e Shanghai si comporti come un vanitoso essere. Vuole apparire poco, insomma. Questo non per forza è un male, dipende da quale angolazione si vuole guardare il problema. Si può anche non apparire e vincere le corse, vedasi quanto tempo (non) è stato inquadrato il vincitore, Oscar Piastri. Ma si può anche non voler apparire e finire per apparire. E non nella maniera che si vorrebbe. A Maranello, non si dovesse invertire la rotta, urgeranno riflessioni serie.
Riflessioni che (toh guarda) in casa Red Bull non smettono di fare da ormai troppo tempo. Nello specifico, da quando un tale Max Verstappen ha avuto carta bianca imponendosi come leader tecnico della (ormai sua?) squadra di Formula 1. Cercheremo di spiegarci. Quattro campionati di seguito non si vincono per grazia ricevuta. Verstappen è forte, forse imbarazzantemente forte. Mette ‘in soggezione’ i suoi compagni di squadra. Almeno da quando Daniel Ricciardo ha lasciato Milton Keynes. Pierre Gasly, Alexander Albon, Sergio Perez e, ora, Liam Lawson. Quattro piloti che, più per meriti che per mancanze, si sono guadagnati uno dei due sedili di uno dei team più forti della griglia. Gli stessi che poi si sono visti di fronte una perturbazione più forte di loro. Max? Sì, ovviamente, ma non solo.
È evidente che ci sia un problema secondo sedile. Sono cinque anni, cinque stagioni con la sesta appena iniziata, che il tema non accenna a placare il suo impeto di argomento di discussione. Il malcapitato, Lawson, potrebbe venire rimpiazzato da Yuki Tsunoda, che tanto bene sta facendo con il team Racing Bulls. Per il bene del giapponese, ci si augura che le voci rimarranno tali, ma è difficile intravedere un cambio di rotta nelle prestazioni del giovane Liam. Né lui, né Gasly, né Albon, né tantomeno Perez, sono gli ultimi arrivati. Gasly è il punto di riferimento dell’Alpine, Albon (in attesa di Sainz) ha trascinato la Williams per tre stagioni, Perez – prima di approdare in Red Bull – veniva da una clamorosa vittoria e, prima ancora, da tanti podi con squadre di seconda fascia.
Non è logicamente possibile, spiegabile, che una volta messisi al lavoro per i ‘bibitari’, tutti e quattro siano diventati dei brocchi. La squadra, in definitiva, deve capire che non tutto ruota attorno al suo campione. Perché quella macchina la sa guidare solo lui. Una vettura, ci mancherebbe, cucita sulle caratteristiche del più forte. Ma a forza di cucire è probabile che il vestito si sia strappato. Non si può prescindere dal contributo della controparte di Max, a maggior ragione ora che la situazione tecnica non è minimamente paragonabile con quella degli anni passati. Verstappen, a mo’ di salvagente, sta tenendo a galla la baracca. Ma non può esserci solo lui. Avrebbero dovuto capirlo da tempo, ci si sorprende di come si ritenga che la soluzione sia ruotare i piloti come inermi marionette.
Il sempiterno canadese. Nona stagione in Formula 1, si fa fatica a crederlo. Prossimo (in realtà a fine ottobre) al ventisettesimo compleanno, con alle spalle 170 weekend nella massima categoria a ruote scoperte. Potrai anche essere ‘il figlio di’, ma se non vali qualcosa a questi numeri non ci arrivi. Un inizio di stagione molto positivo per il ‘mai sorridente’ (cit.) di Montreal, conosciuto anche come Lance Stroll. È noto ai più che, di questi tempi, le analisi psicologiche abbondano, gli ‘uffici facce’ si moltiplicano e il carrozzone del ridicolo si copre di ulteriore imbarazzo. Non per loro, s’intende. Più che altro nei loro confronti. Peccato che, chi di dovere, non se ne renda conto. Stroll, ci si mette la mano sul fuoco, non sarà mai Fernando Alonso, per citarne uno. A parte perché è Stroll. Ma poi per capacità; questo è fattuale.
Stroll, anche su questo non corriamo timori di smentita, non merita il sedile più di un tal dei tali che, sebbene meritevole, quelle macchine le guarda dal televisore di casa. Considerazione a ogni modo opinabile. Ma Stroll ha una dignità. Troppo spesso calpestata da ciarlatani che, evidentemente, non hanno meglio da fare se non sbandierare ai quattro venti la loro avversione nei confronti del ‘raccomandato’. Lui che di colpe non ne ha. Possiamo chiamarla ‘la sfortuna del benestante’. Per molti un ossimoro, per altrettanti un concetto che ha un suo senso. Vero, pieno. E a supporto di quest’ultimo, ultime righe del pezzo con le righe di Esteban Ocon, lui che si è fatto partendo da zero, ma che non per questo ha rinunciato a quello che è un meraviglioso rapporto di amicizia con Lance. E quando quest’ultimo, approdando nell’allora team Racing Point, gli soffiò il sedile e un’orda di leoni da tastiera si accanì sul canadese, Esteban scrisse le seguenti righe: “Possiamo avere origini diverse, ma al nostro interno c’è la stessa passione, lo stesso spirito di competizione e lo stesso amore per questo sport…. Per cui ragazzi, per favore, siate rispettosi e mostrate (nei confronti di Lance; ndr) il vostro supporto, nella vita non c’è nulla di semplice e lavoriamo tutti duramente per essere dove ci troviamo!“. C’è da riflettere, anche da imparare.
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