GP Australia | Appendivinci

Il racconto del Gran Premio d'Australia

Ci hanno scherzato su tutti, non potevo esimermi. Detto questo, per chi tifa Ferrari, e in Italia direi che ce ne siano abbastanza, l’emozione di vedere Carlos Sainz e Charles Leclerc tagliare il traguardo, sommersi dal boato sui gremiti spalti del circuito dell’Albert Park, ha avuto più effetto del caffè del lunedì mattina, almeno per chi se lo beve. Una botta di energia che ha risvegliato i cuori dei più nostalgici, visto che una doppietta, di questi tempi, non capita tutti i giorni.

C’è già chi si è lasciato andare, del tipo “vinceremo il costruttori!” o “possiamo lottare per il mondiale!“. Se avete acceso il televisore solamente per vedere questa gara allora vi do ragione, se avete visto anche le due corse precedenti a quella australiana, allora vi confesso che vorrei avere il vostro ottimismo. Sarà l’aria di primavera, ma pensare che la Red Bull e Max Verstappen perderanno questi titoli è utopia pura. Una giornata storta non capitava da quel dì, è vero, e proprio per questo – per la legge dei grandi, anzi grandissimi numeri – sarebbe dovuta capitare di qui a poco. E allora Verstappen si è ritirato per un problema idraulico che ha bloccato la zona dei freni posteriore destra, mentre Pérez – da metà gara in poi – ha perso circa tre decimi a giro per una perdita di carico attestata sui 20 punti. E però il messicano – che ha concluso quinto – era già ben lontano dai primi quando la sua RB20 ha accusato il danno.

Le domande che mi sovvengono sono quindi due, ma potrebbero esserne di più: e comunque, la Red Bull avrebbe vinto con Verstappen? E quanto è stata negativa la prestazione di Pérez? Per rispondere a entrambi i quesiti ci vorrebbe il Mago Otelma, ma quello che è certo è che la scuderia di Milton Keynes non era nella sua forma migliore, non digerendo – tra le altre cose – la scelta di Pirelli di portare le tre mescole più morbide della gamma (prima volta in assoluto a Melbourne per costringere le squadre ad andare sulle due soste), che ha portato a un annoso graining gestito meglio dalla Ferrari. E poi, storicamente parlando, la scuderia di Maranello ha sempre avuto in Melbourne una pista congeniale, vuoi perché gli assetti dei tecnici in rosso hanno sempre funzionato, vuoi perché l’anno scorso, nonostante gli zero punti racimolati per motivi non collegabili a una mancanza di velocità – quella dell’Albert Park fu, insieme al Bahrain e all’Azerbaijan, la pista dove la SF-23 si espresse meglio nell’inizio di allora. Niente a che vedere, comunque, con la caratura della SF-24, che a questo punto è chiaramente seconda forza della griglia – al netto di valori che possono variare di pista in pista – la tendenza generale è questa. E, soprattutto, si nota un’efficienza diversa. Questa squadra è cresciuta, o meglio sta crescendo, i compiti li stanno facendo bene, e Fred Vasseur è stato, finora, un ottimo maestro. Guai, però, a fare voli pindarici.

Dietro alle due rosse le due papaya – con Norris terzo e il beniamino di casa Piastri quarto. La McLaren aveva già fatto vedere qualcosa di interessante a Gedda, e oggi ha sfruttato la battuta d’arresto dei campioni. Si potrebbe poi discutere sulla scelta di far fare le girandole a Lando e Oscar, con il britannico più veloce che – modestissima opinione – andava priorizzato nella sosta. Il secondo posto poteva essere alla portata, la vittoria sarebbe stata complicata. Manca ancora qualcosa al team guidato da Andrea Stella, e non parliamo solo di vettura, che non si è comportata male e rappresenta il prosieguo di una strada ben tracciata l’anno scorso.

Chi ha invece dei problemi non è tanto l’Aston Martin, la quale necessita di ancora qualche anno di gavetta, seppur stiamo parlando di una nobilissima gavetta, ma la Mercedes. Mi concentrerei su due aspetti: la mancanza degli strumenti per comprendere quali siano i problemi e la mancanza di un progetto degno di questo nome. Ricordiamo ai gentili lettori che la squadra di Brackley l’anno scorso aveva concluso il mondiale costruttori in seconda posizione, ma in calando sia rispetto alla Ferrari che rispetto alla McLaren. Non dovrebbe quindi stupire il ruolo di quarta forza, in lotta con l’Aston Martin, attualmente ricoperto dai campioni che furono. E però sorprende lo stesso, e proprio perché sono stati campioni: la sensazione è che non si siano ancora capiti i problemi, e che questo regolamento non rientri nelle corde del reparto tecnico guidato da James Allison. E proprio a proposito di Allison, la ricerca del capro espiatorio, la ghigliottina, in questi casi non è quello che funziona. Non funzionò con Elliot. I problemi hanno radici ben più profonde. Tutto mi induce a dire che non saranno (non le sono già) le annate più semplici per Toto Wolff.

Tra i numerosi spunti di riflessione che ogni gara ci propone, avrei altri tre argomenti da illustrare, e il primo è rappresentato dalla brillantezza di Yuki Tsunoda. E attenzione perché non è un fuoco di paglia, poi qualcuno preferisce concentrarsi sui team radio del giapponese, sui modi apparentemente poco giapponesi con la visiera abbassata, anche questa una leggenda dai contorni piuttosto metropolitani, e non aggiungiamo altro. Con la crescita di competitività della vettura Tsunoda ha saputo stare al passo, e si è contraddistinto per velocità e poca fallosità, Città del Messico a parte. La differenza che il ventidue sta avendo con il compagno Ricciardo non è da sottovalutare, primo perché in F.1 (a tavola sì) di bolliti non ce ne sono, e poi ci ricordiamo tutti cosa c’è in palio per il 2025. Non corriamo troppo. Staremo a vedere.

Il secondo tema ha un nome è un cognome: Ayao Komatsu. L’addio di Stenier – che intanto bazzica per il paddock, le televisioni se lo contendono, e forse è un bene – è ancora fresco… di ufficialità, è stato uno strappo forte, un taglio netto tra il prima e l’adesso, tra l’esuberanza e la concretezza dell’ingegnere, tra il fare show e il concentrarsi sulla pista, massimizzando il pacchetto a disposizione. La Haas sembra, finalmente, una squadra di F.1, e chi diceva che dovessero farsi da parte per lasciare il posto ad Andretti – come se undici squadre non possano coesistere – forse dovrebbe riformulare il proprio pensiero.

E infine un tema che si apre dicotomicamente: Williams e Stake. Per la squadra di Grove non avere un terzo telaio, portare una sola macchina sulla griglia di partenza, mortificare un pilota che non aveva diritto di essere mortificato in questo modo, il tutto si commenta da solo. E tirare in ballo il budget cap c’entra come i cavoli a merenda. L’ottimo lavoro fin qui fatto da James Vowles non è in discussione, ma questa è una figura che difficilmente verrà messa nel dimenticatoio. E attenzione agli incidenti in Giappone. Per quanto concerne la Stake… beh, menomale che si chiama così, mi verrebbe da dire. Zhou parte dalla pit lane perché non hanno la specifica bis di ala anteriore che era stata montata sulle due C44. Non sarà il telaio ma non è altresì lusinghiero. Dulcis in fundo i pit stop: tre gare e nessuna esente da tragicomiche al momento della sosta. Il povero Bottas si è visto rovinare due gare, e in Australia, al posto di una delle Haas, nei punti poteva esserci lui. Poi si preferisce parlare del suo video postato sulle vare piattaforme social, lo si etichetta come pilota che non ha più nulla da dire, e la si butta in caciara. Avanti così.

Immagine in evidenza: © @F1 X profile

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Autore

Davide Attanasio
Ragazzo di venti anni che prova a scrivere di macchine, che girando a velocità folli per tutto il mondo fanno battere il cuore e vibrare l'anima

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